lunedì 23 giugno 2014

34° Gasshuku, stage estivo

“Ci vuole il Maestro migliore per imparare bene la pratica
 e ci vogliono gli Allievi migliori per tramandarla.”
      ( M° Wang Xiang Zhai )

Non c’ero al 34° Gasshuku, stage estivo, della Scuola.
La morte di mia madre, il bisogno di ascoltare il dolore, di elaborare il lutto,  ho permesso loro di tenermi lontano da questo importante, fondamentale, appuntamento dello Z.N.K.R.
Chitine di insetti a deturpare il sole, deformità rossastra, che sorge dentro il mio cuore: Sono stati giorni così, i giorni del dolore e della morte, del funerale e del silenzio affogato dentro i ricordi ed i rimpianti.
Intanto, grazie alla buona volontà, alla passione, di tutti gli iscritti, entrava in scena, nelle Marche, il nostro 34° Gasshuku, stage estivo.
Stage in cui l’attenzione al corpo, al sapere più che al conoscere, di sé e del movimento, avrebbe condotto i praticanti dentro l’Arte del combattere.
“Sapere”, dal latino “sapio” che è gustare, assaporare: sensi intensi che ti palpano fuori e dentro, ti trasformano con la loro palpazione audace e totale. Poca conoscenza intellettuale che quest’ultima, priva del sapere che è gustare, del sapere che è emozionarsi, assurge a museruola di impedimento e fissazione razionale , finanche mordacchia, strumento di laida tortura che ci nega di esprimerci umani, unità fisicomoetiva indissolubile.
Movimento di bacino e femori: a fronte di illustrazioni libresche e modelli artificiali che ne mostrano le ossa del tutto saldate tra di loro, scopriamo ossa in grado di muoversi liberamente le una dalle altre.
Ecco che l’idea e la pratica di movimento, di azione, muta radicalmente e, con essa, muta il sentire e l’esprimersi emotivo del soggetto.
Ecco che le caratteristiche espressive del movimento, così scoperto ed esplorato, divengono agire personale e consapevole nel conflitto, nello scontro,
Ecco l’importanza di praticare all’aperto: ascoltare le voci ed i silenzi, i ritmi e le pause di uno spazio vuoto di cose umane ed immenso, senza limiti se non quelli della propria vista, allo stesso metodo con cui ascoltiamo e diamo vita, agiamo, il corpo, agiamo noi corpo fisicoemotivo.
Così avrebbe dovuto essere ed è stato il 34° Gasshuku, stage estivo. Lo stage della mia assenza, sì. Ma lo stage della presenza dei Maestri Valerio, Giuseppe e Claudio, degli allievi che, ogni giorno, sono e fanno Z.N.K.R.

“Chi sei tu?” disse il bruco … Alice rispose, alquanto timidamente: “Io, io quasi non lo so, signore, almeno al momento; quantomeno  so chi ero quando mi sono alzata questa mattina, ma credo di essere cambiata più volte da allora”.
(L. Carrol)







venerdì 13 giugno 2014

Addio, mamma

Arriva così, d’improvviso, la telefonata: “La mamma è in coma”. Nemmeno il tempo di attraversare i Navigli, sotto il sole che sa d’estate, e la stessa voce, al telefono: “La mamma è morta”. Se ne è andata così, un Mercoledì di Giugno.
Domani, Sabato, quando la bara sparirà inghiottita dalla cerimonia funebre, sarò ancora più solo. Niente più fili col passato, con le mie radici, se non i ricordi che, inevitabilmente, scivoleranno nell’oblio, deformati nel tempo e nella memoria, minuscole stelle cadenti dalla parte sbagliata del cielo.
Allora preferisco pensare allo scherzo che mi ha tirato la mamma mia, andandosene proprio un paio di giorni prima dello stage estivo e della mia settimana nelle Marche. Chissà come se la ride, la mia piccola mamma, da lassù. Con tutto quello che le ho fatto passare, attraverso un’adolescenza e poi una gioventù sempre fuori dalle righe: immortalato sui quotidiani e in televisione in immagini di scontri e sprangate, sorpreso per strada ad armeggiare con moto e bici rubate, buttato fuori dal liceo, in giro per strade d’Italia dove non avrei dovuto essere, capelli lunghi, troppo lunghi, per quegli anni e vestiti del tutto improponibili, e le corse in moto e le ragazze portate in casa e … hai fatto bene, mamma mia, a tirarmi questo scherzaccio.
Ora sono a Milano, ad occuparmi, con tua figlia Anna, di te, del tuo funerale e di tutte quelle pratiche burocratiche che a me paiono orpelli grotteschi in una rappresentazione teatrale demente. Niente stage, niente settimana di vacanze e pratiche marziali dall’amico Valerio.Bello scherzo, mamma.
E penso ai tuoi insegnamenti di forza e resistenza, al tuo non mollare mai. Sei stata tu, a volte più del babbo, ad insegnarmi la scorza dura e l’indifferenza alle avversità.
Ricordo, io bambino di forse otto anni, venire a piangere da te perché ero stato picchiato. Tu mi mollasti un ceffone prima di dirmi “Tu non devi mai alzare le mani per primo, ma non venire più a dirmi che qualcuno te le ha date, perché te ne anche io”, Lezione imparata in un istante. Da allora, iniziò la sfilza di mamme che venivano a lamentarsi da te per un naso sanguinante o un labbro spaccato e tu, donna minuta ma ferma : “Mio figlio non alza mai le mani per primo, evidentemente il suo gli aveva fatto qualcosa”. Ho continuato sempre così, negli anni successivi, anche se, tu lo potevi immaginare, una volta “grandicello”,non sempre le mie mani partivano per seconde…
Poi, i giorni dell’influenza: i primi tre giorni a letto, coccolato e riverito come un principino; al quarto giorno, guarito o non guarito, febbre o non febbre, mi buttavi giù dal letto che era il tempo di riprendere la scuola ed il fare quotidiano.
Ricordo la colonia estiva dalle suore, in collina, e le camminate di ore sotto il sole, tra salite impervie, detriti incerti sotto il passo di noi bimbetti, l’arsura tormentosa alla gola che no, non potevamo bere sino al rientro. Sarà anche per quello che le suore non suscitano in me alcuna simpatia, eh, mamma ?
Ho continuato così per anni, per decenni, anche una volta adulto: sempre “in guardia” e sempre a vedere solo il bello in ogni cosa che mi accadeva, sempre a non mollare mai.
Convinto e fiero.
Fino alla Scuola Gestalt, ed avevo già cinquanta anni. Quando il docente del primo anno, sentendomi sorridere fiero e contento del fatto che, a vent’anni, ricoverato in sanatorio dopo un’emotisi ed una degenza che pareva senza speranza in ospedale, in anni in cui la tisi era ancora una bestia difficile da domare, una malattia invalidante, avevo finalmente una camera tutta mia e non il salotto buono da dividere, la notte, con mia sorella, sì quel docente mi appese al muro e mi costrinse a vedere in faccia tutta la  realtà. Anche quella che io non volevo vedere. Quel docente mi costrinse a dire che ero stato sfortunato ad ammalarmi, a vomitare sangue per le strade di Milano, a finire in Sanatorio tra cure incerte ed un futuro che di normale non aveva molto da offrire.
Dopo di lui altri, in quella Scuola che è stata davvero scuola di vita. Altri,a mostrarmi il coraggio della vulnerabilità, del guardare dritto in volto anche gli accadimenti brutti e tragici, a masticare anche le emozioni più scure e dolorose. Solo riconoscendole, poi accettandole, avrei potuto davvero essere forte; avrei potuto davvero scegliere consapevolmente “ il bicchiere mezzo pieno”, solo dopo aver visto anche il “mezzo vuoto”.
Sono diventato un uomo meno allegro, meno sorridente, più esposto ai dolori ma più equilibrato. Le mie violenze dentro, quel “passeggero oscuro”, lo riconosco e lo agisco. Guardo in faccia le avversità, le affronto, ma quando i colpi che ricevo sono troppo forti per me, non faccio finta di nulla. Mi fermo, mi “lecco le ferite”, ci piango un po’ su prima di rialzarmi e combattere.
Ed è per questo che, mamma, il tuo scherzo è andato solo parzialmente a buon fine.
Perché il Tiziano di una decina di anni fa, immediatamente finito il funerale, sarebbe partito per le Marche, a completare lo stage, a fare la settimana di vacanze e formazione marziale dall’amico Valerio, a fare il suo dovere, a mantenere, sempre e comunque, l’impegno preso, a sorridere agli amici, a prestare cuore ed empatia a chi voleva una mano per un problema o un dolore.
Invece no. Resterò a Milano a “leccarmi le ferite”: voglio il mio tempo per piangerti, mamma cara che non tornerai mai più. Voglio gridare al cielo il mio dolore, la mia rabbia per avermi lasciato solo. Voglio commiserarmi perché tu sei morta; parola terribile, priva di ogni domani.
Voglio il tempo del mio dolore, del mio bicchiere “mezzo vuoto”, prima di gongolare per la parte “mezza piena”.
Scherzo riuscito a metà, mamma. O, forse, tu lo sapevi che sarebbe andata così, e mi hai semplicemente lasciato uno, l’ultimo, dei tuoi insegnamenti.
Ti amo, mamma. Anche per questo, qui vedrai le foto di mio figlio Lupo, di parenti ed amici che si sono spostati fino fuori Milano per vederlo debuttare a teatro con la sua nuova compagnia, la “Dual Band”, ed i suoi compagni del corso di teatro. Perché non hai voluto aspettare di vederlo grande e, magari, attore affermato. E ti capisco, 98 anni sono un fardello bello pesante. Ma così, dal cielo delle stelle spente, un’occhiata la puoi buttare pure tu e, con te, papà Renzo.
Addio, mamma.


“Non sono un ubriaco, ma neppure un santo. Un medicine – man non deve essere un ‘santo’ … Deve poter cadere in basso quanto un pidocchio ed elevarsi come un’aquila … Deve essere dio e diavolo insieme. Essere un buon medicine - man significa trovarsi nel mezzo di una tormenta e non mettersi al riparo. Significa sperimentare la vita in tutte le sue espressioni. Significa fare il pazzo ogni tanto. Anche questo è sacro”

(Capriolo Zoppo, stregone della tribù Lakota)








giovedì 5 giugno 2014

Una giornata “fuori porta”

“Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”
(P. Bertoli “ A muso duro”)

Come al solito … sbagliamo strada !! Una costante ogni volta che ci rechiamo in gita “fuori porta”. E non importa se a guidare la mini carovana, due auto, è Massimiliano. Girovaghiamo, spersi come adolescenti alla prima festa fuori casa, per campagne ed abitazioni.
Poi, finalmente, dopo un paio di telefonate con Paolo che già è in loco, raggiungiamo “Ai due Taxodi”, l’Agriturismo scelto per un buon pranzo tra amici e praticanti.
Un Ortrugo di qualità bagna le nostre gole, mentre addentiamo una Chianina d’eccezione.  I bambini più grandi, Matteo e Lupo, scorrazzano nel prato, mentre Amos e Leonardo, complici la mini età, stazionano più volentieri sul seggiolone.
Il sole è caldo, ma refoli di vento leggero non mancano di far sentire la loro presenza.
Saranno i discorsi frivoli, sarà che, tra essi, a volte fa capolino qualche riflessione seria, ma mi trovo a riflettere sull’enorme differenza che c’è, che c’è da anni ormai, tra la concezione meccanicista, ovvero riduzionista, che ancora impera in molte pratiche marziali e nella loro espressione sportiva, e quella d’insieme che caratterizza la nostra Scuola.
Da un lato, chi considera il corpo ed il suo agire nello spazio ed il lavoro, l’allenamento, per migliorare ambedue, come  una pratica che produce effetti legati alla somma di azioni meccaniche, ove poco importi la successione e la complessità delle forze messe in campo.
Dall’altro  lato, il nostro, in cui l’azione congiunta di diversi fattori di allenamento ( ma io, lo sapete, preferisco usare il termine “formazione” ed ho più volte spiegato il perché ) non origina un risultato uguale a quello che si avrebbe  se le diverse componenti agissero singolarmente.
Da un lato, dunque, una mera somma matematica, dall’altro un’interazione  complessa.
Come a dire che aspetto fisico, aspetto chimico ed aspetto biologico operano insieme; che l’individuo è un organismo omeostatico in cui tutte le parti sono in relazione organica e funzionale tra loro e rispetto al tutto; che qualsivoglia aspetto materiale (fisiologico, sonoro, ecc.) di un essere umano è una traccia che rimanda ad un vissuto psichico e viceversa.
Per quanto riguarda il fare marziale, ciò significa formarsi in modo da costruire una fusione creativa ed innovativa in ogni praticante, il che comporta l’accettazione  di un certo margine di non perfetta predicibilità dei fenomeni e la loro soggettività.
Come a dire , dal punto di vista fisicoemotivo, abdicare ad ogni pretesa  di fissare riferimenti schematici e matematici, per abbracciare l’ipotesi di un individuo che sappia orientarsi in una realtà circostante non totalmente prevedibile, rifugga dalla pretesa di un controllo onnipotente sulle cose e le relazioni, tolleri ansia e senso di incertezza che originano dalla necessità di vivere in una precarietà che non potrà mai essere eliminata.
Un … guerriero, insomma. Come tale, poco propenso a costruire sicurezze esteriori in muscoli evidenti, pratiche di combattimento insegnate con metodi lineari, codificati e massificati, esaltazione di valori macho-superomistici e pratiche di sfogo “scazzottatorio”.
Invece, un praticante, un guerriero, attento a costruire incertezze, tra spinte creative e spinte distruttive, capacità di scegliere, di formarsi un personale gusto di vivere, di esprimere Hyogen – shiki (stile di espressione), ovvero, mediante la propria presenza fisicoemotiva, “esprimere le considerazioni morali, i sentimenti, oppure le impressioni provocate dagli elementi e dalla natura, allo stesso modo delle arti tradizionali del No e della danza” (M° J. Kano “Judo kyohon”).
Un individuo ben inserito nel contesto sociale ma non per questo supino, piegato, al pensiero dominante, quanto in grado di opporvisi, di costruire  pratiche personali e collettive antagoniste, quando non alternative, all’ideologia, ai valori, ai costumi dominanti. E quanto c’è bisogno di individui siffatti in questo mondo delinquente, alienato, decadente e conformista !!
Il pranzo è terminato da un pezzo. Giuseppe è con i bambini a mostrare gli animali dell’Agriturismo, a spiegare cose del loro vivere. Noi siamo sparsi per il prato.
E perché no una merenda ? Impossibilitati ad affondare i denti in qualcosa di dolce, che la cucina ne è priva, ripieghiamo su dell’ottimo salame, sempre bagnato da Ortrugo ben fresco.
Le chiacchiere si spostano sul tema delle vacanze, magari, per l’anno prossimo, una settimana tutti insieme ? Difficile da realizzare, con gusti personali ed esigenze di lavoro così distanti tra di loro. Ma è bello fantasticarne:  Paolo che rilancia Boavista e Capoverde, Donatella poco attratta da vento e squali compagni d’acqua, Monica orientata alla Grecia, Maria defilata a giocare con il figliolo.
Si kazzeggia, si ride, ci si prende in giro.
Si chiude, insieme, una bella giornata di amicizia.


Senza immagine Dio vaga in paradiso
ma preferirebbe fumarsi un sigaro
o mangiarsi le unghie, e così via.
Dio è il proprietario del paradiso
ma agogna la terra, le grotticelle
assonnate della terra, l’uccellino
alla finestra di cucina, perfino
gli assassini in fila come sedie scassate,
perfino gli scrittori che si scavano
l’anima col martello pneumatico,
o gli ambulanti che vendono i loro
animaletti per soldi, anche i loro
bambini che annusano la musica
e la fattoria bianca come un osso,
seduta in braccio al suo granturco e anche
la statua che ostenta la sua vedovanza,
e perfino la scolaresca in riva all’oceano.
Ma soprattutto invidia i corpi, Lui che non l’ha.
Gli occhi apri e-chiudi come una serratura
che registrano migliaia di ricordi,
e il cranio che include l’anguilla cervello
 tavoletta cerata del mondo
le ossa e le giunture che si giungono
e si disgiungono e c’è il trucco, i genitali,
zavorra dell’eterno, e il cuore, certo,
che ingoia le maree rendendole monde.
Lui non invidia più di tanto l’anima.
Lui è tutto anima, ma vorrebbe accasarla
in un corpo e scendere quaggiù per farle
fare un bagno ogni tanto.
(A. Sexton "La Terra")